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Riassunto tratto dalla precedente edizione del sito del Comune di Villareggia ed ispirato dall'ottima Tesi di Laurea della Prof.Maria Gianetto,
1949, della quale consigliamo la lettura integrale.
IL BORGO DI VILLAREGGIA E LA SUA EVOLUZIONE NELLA STORIA
Il ricetto medioevaleIl Borgo medioevale
Nelle antiche carte il nome è scritto “Villaregia” o anche “Villa Regia” e non come si scrive oggi “Villareggia”.
Si ritiene che in origine fosse un latifondo di proprietà reale per qualche confisca operata dal Sovrano o Signore, oppure per una vera e propria riserva concessa al suo territorio ed ai suoi abitanti.
L'ipotesi è anche avvalorata dal fatto che Villareggia possedeva il suo castello, in cui risiedeva il Signore o l'agente regio. Non è tuttavia da escludere che fosse invece una casa o villa di caccia per il Signore. L'essere costituita di poche case rustiche e forse, particolarmente, l'essere dominio diretto del Signore, tolse il paese di Villareggia dalla storia comune dei paesi vicini.
Compare, come nucleo di qualche importanza, assai tardi, quando gli abitanti dei luoghi vicini, forse per mettersi più al sicuro sotto la diretta difesa del Signore, abbandonarono le loro abitazioni di Miralda, di Uliacco e di Moriondo e si trasferirono al piano, nei confini dei possedimenti signorili. Dei tre borghi ubicati nei pressi di Villareggia oggi non rimangono che pochi resti: la chiesa di S. Martino ad Uliacco, i ruderi di S. Michele con il vicino cascinale a Moriondo, e la chiesa di Miralda.
Tralasciando l'origine e la storia di questi villaggi, che pure c'interessano molto da vicino, si può ritenere verosimilmente, desumendo la notizia da documenti dell'epoca, che Villareggia fosse intorno all'anno 1000 un possesso personale dei conti di Biandrate. Determinare come sia venuta in possesso di questa famiglia non è stato finora possibile. Dai conti di Biandrate, per ragioni ereditarie, passò probabilmente ai conti di Albiano, e da questi, per la cessione dei propri beni fatta all'imperatore Federico Il, allo stesso Imperatore.
Passata successivamente, come pare, al Cardinale Guala Bicchieri, venne ceduta all'Abbazia di S.Andrea di Vercelli. Tra le carte conservate in quell'archivio esiste, tuttora, un inventario del 1225, nel quale si trova segnato il nome di “Villa Regia”, e ne stabilisce all'incirca anche la località: nelle vicinanze della Dora e della chiesa di S.Martino. E´ la prima documentazione certa che ci parla del nostro paese in termini reali.
In questo periodo si esce pertanto dal campo delle supposizioni o delle incertezze, per passare decisamente nella storia.
Come fu amministrata Villareggia al tempo in cui fu proprietà dell' Abbazia di S. Andrea?
Non ci sono elementi per poter stabilire qualche cosa di particolareggiato. Se dobbiamo procedere per induzione, possiamo dire che, secondo l'uso dell'epoca, l'Abbazia lasciava libertà agli abitanti del paese di lavorare e di organizzarsi come meglio credevano, tuttavia ogni anno dovevano conferire all'Abbazia l'importo di un canone, a titolo di riconoscimento della sovranità dei monaci sul paese e sul suo territorio.
E fino a quando rimase infeudata all' Abbazia di S. Andrea?
Con precisione non si sa, ma se dobbiamo credere all'assicurazione di uno storico del XVIII secolo, Villareggia, insieme con Cigliano, passò sotto i Savoia dopo il 1375, ed assegnata al Capitanato di Santhià .
Il Capitanato rappresentava il Principe nell'amministrazione civile e militare, doveva far eseguire gli ordini ed aveva l'incarico di proteggere la libertà e l'immunità dei Comuni soggetti.
Curava l'esazione dei focaggi, dei sussidi e delle altre rendite dello Stato per mezzo del Chiavaro, o tesoriere ducale. Riscuoteva uno stipendio annuale non già dal Principe, ma dalle Comunità comprese nel Capitanato, le quali tutte concorrevano, in proporzione del numero degli abitanti, a sborsare le relative quote nel giorno di S.Martino di ogni anno. Quando si dovevano trattare affari che riguardavano il Servizio del Principe, si facevano a Santhià i congressi davanti al Capitano o al suo vicario. Tutte le comunità del circondario vi mandavano i loro rappresentanti.
Da una deliberazione del Comune in data 10 novembre 1606, si rileva che per la discussione della questione del sale furono mandati al Congresso di Santhià, in qualità di rappresentanti di Villareggia, certi Cesare Pastero e Giovanni Antonio Verceletto.
Nel1608, la comunità dava inizio alla costruzione della chiesa di S. Rocco e S. Sebastiano, in adempimento di un voto fatto durante il periodo in cui infierì nel Canavese la peste.
Questa si manifestò a Villareggia nel 1540 e nei due anni seguenti, e ricomparve nel 1571.
Scrive il Bertolotti in una sua trattazione: «...i malati di peste .....i chiudevano in capanne di paglia, le quali venivano poi bruciate con l'estinto. Si era nell'estrema miseria; era ritenuto ricco chi poteva avere un pugno di miglio a pranzo ed un pugno di farina di ghiande per gli ammalati»
Ad aggravare la situazione, di per se stessa molto precaria, intervennero altresì le guerre che in quel periodo si scatenarono tra Francia e Spagna per il possesso del Milanese.
Il Canavese fu invaso dalle truppe straniere, le quali portarono disordini, turbolenza e miseria.
Con la pace di Chateau Cambrèsis, che pose fine alla guerra, i Savoia riebbero i loro Stati. Tuttavia i Francesi restarono nelle fortezze di Torino, Pinerolo, Chivasso, Villanova d' Asti e Chieri; gli Spagnoli, in quelle di Asti e Santhià.
Villareggia si trovò ad avere milizie straniere a pochissima distanza. I suoi campi erano quindi perennemente minacciati dalle soldatesche degli uni o degli altri per cui i contadini coltivarono in quegli anni solo quello che poteva sopperire ai bisogni della famiglia. Il naviglio di Ivrea fu quasi del tutto abbandonato, tanto che, pieno di terriccio e di sterpaglie, più non serviva all'irrigazione dei campi. Di più, le imposizioni, sia in denaro che in natura, costringevano la popolazione alla miseria e alla disperazione.
Le guerre, come fatalmente succede, avevano rovinato le famiglie e gli individui. Turbe di sbandati si erano rifugiati nei boschi, allora molto estesi, e di qui minacciavano continuamente i beni delle popolazioni più vicine. La comunità di Villareggia dovette pubblicare un bando contro «li stradaroli, li vagabondi e i malviventi». Il bando è del 1606 e dice: «I Consoli e Credenziari ordinano che non vi sia persona alcuna di questo luogo, ne panettieri, che abbiano a vendere pane ne a somministrare vino o qualsivoglia altro alimento, a persone vagabonde e malviventi, sotto pena di 25 scudi d'oro per ognuno e per ogni volta somma che sarà versata per due terzi al fisco di S.Altezza, e per un terzo all'accusatore, il quale essendo persona degna di fede, mediante il suo giuramento, gli sarà dato credito»
I Villareggesi furono sempre tenaci nel difendere le loro prerogative e gelosi di essere alle dipendenze immediate dei duchi di Savoia.
Nel 1605, per esempio, Gian Antonio Bocho, medico personale di Emanuele Filiberto, fu investito del feudo di Villareggia, a ricompensa dei servizi prestati al duca. La Comunità convocò allora nella chiesa parrocchiale di S.Margherita (l'odierna S.Marta) la Credenza generale, con tutti i capi famiglia.
In seduta comune si deliberò di far valere i privilegi della Comunità e di ricorrere senza indugio al duca, ricordandogli come i Villareggesi, per i patti stipulati con i suoi antenati, avessero il privilegio di dipendere direttamente ed in perpetuo dai duchi di Casa Savoia, e quindi non dover essere infeudati ad alcuno.
Per sostenere le proprie ragioni, i capi famiglia elessero, quali loro rappresentanti, certi Giovanni Ferro e Giovanni Antonio Verceletto.
Rimisero i privilegi nelle mani del sig. Pietro Antonio Bonino, procuratore della Comunità, e disposero di alienare ogni bene comune, di imporre collette e taglie pur di far valere i propri diritti. Carlo Emanuele I riconobbe la fondatezza dei loro reclami, ed in data 10 febbraio 1607 riammise i Villareggesi sotto il dominio diretto di Casa Savoia, riconfermando i privilegi concessi nel 1464.
Questo non tolse che nel 1614 Villareggia fosse infeudata al Marchese di Lanzo, Sigismondo d'Este; successivamente, nel 1617 , Villareggia fu infeudata da Carlo Emanuele I al barone Sigismondo Spatis di S.Germano. Morto questi passò, per la figlia Paola, al figlio conte Andrea nel 1666.
Gli Spatis si estinsero nel 1675, ed alla loro morte Villareggia tornò alle dirette dipendenze dei Savoia.
Queste infeudazioni, però, furono più nominali che reali, perché i Villareggesi continuarono a riconoscere nel duca di Savoia il loro unico superiore, e nel feudatario non altri che un delegato del duca, al quale ultimo, per diritto, potevano sempre ricorrere.
Fu durante questo periodo che si scatenarono le guerre di successione del Monferrato e della Spagna. Il Piemonte e, in particolare, il Canavese, fu invaso a più riprese. Villareggia ebbe a soffrirne moltissimo. Negli ordinati del Comune si susseguono incalzanti, insieme con le taglie, le spese di alloggiamento delle varie compagnie che continuamente transitavano sul nostro territorio, facendo soste più o meno lunghe, tanto che la Comunità, a più riprese, dovette contrarre debiti con «li particolari del luogo», onde far fronte a tutti gli impegni a cui doveva sottostare.
Villareggia godette di una certa tranquillità durante il secolo XVIII, seppure le condizioni economiche non mutassero di molto e la miseria fosse la compagnia quotidiana dei più diseredati. Fu durante la rivoluzione francese che le condizioni peggiorarono subitamente e che si rividero le truppe straniere ripercorrere le nostre terre apportandovi rovine, desolazione e morte. Venne portato via tutto quello che aveva un qualche valore, tutto l'oro, l'argento e persino le campane necessarie al culto. Il 31 maggio 1800 milizie napoleoniche, costituite da circa 3.000 armati, giunsero improvvisamente alle cascine della Rocca, lasciandovi solo più le muraglie crivellate e danneggiate. A squadroni vennero quindi a Villareggia, che saccheggiarono seminando il terrore e lasciando nella più squallida miseria la popolazione. Come conseguenza giunse puntuale la carestia. Parecchi morirono letteralmente di fame. Si trovarono vari morti con la bocca piena di erbe selvatiche, di foglie di gelso e di insalata. Questo tristissimo periodo viene descritto minutamente dal chirurgo Giuseppe Valle in un suo diario, e, se lo spazio ce lo consentisse, sarebbe interessante riportarne qualche brano ad edificazione delle attuali generazioni.
E così, tra stenti e miserie, i nostri antenati trascinarono il loro pesante fardello, di pene e di sofferenze, raramente di gioia, attraverso i secoli. Sarebbe interessante approfondire una trattazione particolareggiata che non ci è consentita in questa breve sintesi, la quale ha il solo scopo di far conoscere alle generazioni attuali, ormai giunte attraverso la rivoluzione tecnologica al soddisfacimento dei bisogni materiali, l'origine e le vicende del natio borgo, e ad additare a ciascuno di noi di quante lacrime e sangue fu cosparso il cammino dei nostri avi.
L'origine quindi di Villareggia come centro abitato di qualche importanza, deve essere stata simile a quella di Alessandria della Paglia, fondata, per altri scopi dagli «incolis ex septem locis» i quali convennero nel territorio di «Roberetum intra Tanagrum et Bormidam», con le cose loro per istringersi in una fortezza inespugnabile.
Invece di Borgoglio, Corniento, Solero, Foro, Oviglio, Gamondo, Rovereto, i sette castelli i cui abitanti si raccolsero nella nuova località dando origine ad Alessandria, per Villareggia si parla di Miralda, Moriondo ed Uliacco.
L'origine dei tre borghi non è conosciuta, come non è conosciuto il tempo in cui gli abitanti lasciando le loro sedi si trasferirono definitivamente nella “Villa Regia”.
MIRALDA, ULIACCO, MORIONDO
Miralda.
Il villaggio confinava con Uliacco. Vi fa cenno Ottone III nel diploma dell'anno 999 e l'imperatore Corrado nel 1207 confermandone il possesso a Vercelli.
Del 1256 è un accordo tra i signori di Miralda e il Comune di Vercelli in cui sono sottoscritti un “Enrietto Testa pro domino Uberto De Miralda de Bondonis” e appena più sotto un certo “Rogerio de Bondonis”.
In un trattato di pace del 1278 tra Vercelli e il Marchese del Monferrato, per compromesso degli ambasciatori di Pavia, si fa pure cenno di Miralda.
Ed un Jacopo del Miralda è sottoscritto nel testamento fatto dal Marchese Giovanni di Monferrato, nel 1305, al suo castello di Chivasso.
Miralda, dunque, fu un feudo dei Bondonis; più tardi fu feudo dei Leveratis.
Distrutto questo villaggio, la popolazione passò a Villareggia.
Moriondo.
Fu un castello con relativo tenimento. Si ergeva maestoso a ponente di Villareggia e sovrastava la Dora. Fece parte del fondo di Uliacco. Dal Vescovo di Vercelli, Guala Bondoni, fu dato in feudo ai suoi nipoti, tra l'anno 1172 e 1180. Dai Bondoni passò ai Levorati di Pontremoli.
Rimase sotto di loro fino a quando a Giovannantonio Levorati furono confiscati i beni per aver avvelenato certi fratelli Bellini, suoi sudditi di Moriondo.
In lettere della duchessa Jolanda del 1472, questa terra è ricordata col nome di Monte Rotondo.
In una investitura del 1515, si parla di rovine dei castelli di Moriondo e di Uliacco che però dovevano essere stati distrutti parecchio tempo prima, nel secolo XIV, durante la lotta tra i signori locali e il Monferrato.
Nel 1563 venivano rinnovate al Comune di Moncrivello, dal duca Emanuele Filiberto, le investiture della terza parte del castello di Moriondo (ricostruito) con diversi beni, molini e porto della Dora Baltea. Nel 1570 il castello di Moriondo risulta ancora una volta completamente distrutto.
Nel 1621, in dicembre, le sorelle Jeronima, Eleonora e Lucrezia, figlie di Pompeo Lignana e della marchesa Margarita Tizzone, vengono investite di una delle sei parti che formavano il distrutto castello di Moriondo.
Nel 1647, con istrumento rogito Giolito, il comune di Moncrivello vendeva al marchese Gaspare Antonio Roero di Settimo le proprie ragioni sul castello di Moriondo che era demolito.
Il feudo subì in seguito vari trapassi: Giovanni Francesco Grisi lo dà in dote alla figlia Orsola maritata al Conte Falletti Carlo Giuseppe avvocato, il 31 luglio 1736; in seguito, per Anna Rosalia figlia del capitano Giorgio Falletti, passa al marito Marenco Antonio, senatore, il 31 luglio 1773.
Vi succede poi nel 1789, il 15 maggio, il conte Giuseppe Cesare Pasteris. Per altre parti si successero altri signori come i Pasteris, gli Spatis, i Ponte.
Negli Ordinati Comunali figura il barone Pasteris Giuseppe, infeudato con Regie patenti del 24 gennaio 1777.
Nel 1847, ancora dagli Ordinati del Comune, è nominato il barone Luigi Pasteris. A Moriondo ci sono tuttora tracce dell'antica chiesa parrocchiale dedicata a S.Michele.
Uliacco (Uliaco - Ugliacco).
Uliacco era un villaggio situato sul pendio del colle, oggi comunemente detto di San Martino, che fa parte dell'estremo lembo meridionale del caratteristico anfiteatro morenico di Ivrea. Le sue origini sono avvolte nel mistero.
Ugliacco fu certo molto antico: lo dice il nome che deriva da vocaboli celti. I filologi moderni ritengono infatti che le nomenclature territoriali finenti in -ava, -acco, -arco, -ate, -ago, ecc. siano derivate dai Celti, popolo al quale appartenevano i Salassi inferiori, primi abitatori del Canavese.
Sono piuttosto numerosi i villaggi aventi nomi con la finale in «acco», come ad o Tavagnacco, Brusacco, Lugnacco... che sembra significassero in lingua celtica "luoghi vicini all'acqua".
Questa supposizione, nel nostro caso, è giustificata dal fatto che la geologia ci fa conoscere che in epoca remotissima l'anfiteatro morenico di Ivrea, o per meglio dire, la grande conca in esso compresa, venne occupata dalle acque del disciolto ghiacciaio, dando origine ad un lago.
Benché nessuna memoria storica parli del lago, la tradizione è conservata viva in tutto il Canavese.
Se ne parla con tanta convinzione e vivacità di colori che la sua scomparsa pare un fatto recente, mentre il geologo Bartolomeo Gastaldi afferma essere impossibile fissarne l'epoca, tanto è lontana.
L'Azario, cronista del IX secolo, scrive del suo “De Bello Canapiciano”: «Anticamente tutta la valle al di sotto di Ivrea, compresa fra le alture, era un grande lago. La Dora, parte di detto lago, usciva sotto Mazzè e procedeva verso Rondissone... nella foce di Mazzè l'acqua si scavò una uscita ed il lago disseccò..»
Dal colle di S.Martino, prospiciente all'antico lago, si contempla il rialzo su cui poggia Mazzè e la cosiddetta forra che la Dora riuscì ad aprirsi, col probabile aiuto dell'uomo, attraverso la morena frontale per sboccare precipitosa nel Po di fronte a Brusasco.
E´ probabile che il taglio sia stato agevolato dagli antichi Liguri Salassi, che scesi dai monti si diedero a prosciugare e a dissodare le terre palustri.
Rafforza questa ipotesi una leggenda, ancor viva nel nostro paese, la quale ricorda l'ombra paurosa della regina Ippa di Ivrea, dannata a vagare per gli anfratti esistenti dove la Dora è imminente al Po, per avere con arti diaboliche e con enorme massacro di persone aperto questo più comodo sfogo al fiume.
I nostri vecchi narrano di aver visto infissi nei ruderi tuttora esistenti del muro di cinta del Castello di Uliacco, i grossi anelli di ferro che servivano per fermare le barche naviganti sull'antico lago.
Il termine Uliacco deriva dai vocaboli celti: “Uliacom” che vuoI dire "Pago del Seno” o “Pago della guardia”.
Uliacco, infatti, sorgeva in strategica posizione dove la collina formava un seno. Con tutta probabilità Uliacco fu villaggio romano. Lo supponiamo pensando che proprio a Saluggia, con cui confinava, è da porre la famosa “Quadrata Romana” e che era vicinissima alla località (tra Mazzè e Carrone) in cui si verificò il tremendo scontro tra Appio Claudio e i Salassi, in seguito al quale i romani diventarono padroni della pianura della Dora (143 A. Cristo).
Anche la posizione di Uliacco poteva essere strategica per le guarnigioni romane, quale sentinella sulla strada che da Cigliano e Moncrivello proseguiva per Ivrea.
LE FRAZIONI DI ROCCA (RIVAROTTA) E GERBIDO
Le due frazioni ebbero una storia ed uno sviluppo del tutto indipendente dalla storia del Capoluogo.
Rocca (Rivarotta)
Rivarotta, ora Rocca, sorge sulle ultime propaggini della morena di Mazzè. Prende il nome dal terreno largamente spaccato e rotto dal continuo alveo scavato profondamente dal fiume Dora, cominciando sotto a Mazzè fino al di sotto di Saluggia. Il centro è costituito da un castello strapiombante sull'alveo del Naviglio di Ivrea, ultimamente ricostituito ed ampliato.
Non mancano studiosi del luogo che le attribuiscono origini romane. Rivarotta faceva parte del Contado di Valperga. Carlo Emanuele II di Savoia la smembra dai Valperga ed unendola al feudo di Moncrivello, l'infeudò a Cesare di Maio, capitano generale delle Artiglierie spagnole in Lombardia e Piemonte. Si deduce però che l'atto del 1543 aveva con tutta probabilità carattere temporaneo e di ricatto, giacché si ha un altro atto effettivo, in data 1 dicembre 1565, di confermata vendita, fatta da Emanuele Filiberto, al detto Cesare di Majo del luogo e castello di Moncrivello con la grangia di Rivarotta. Il Majo moriva senza figli. Erede suo fu il figlio di sua sorella, Pompeo di Lignana, il quale smembrò Rivarotta da Moncrivello e la lasciò nel 1568, con atto del 23 maggio, per una metà al nipote Francesco Giacinto David e per l'altra metà alla nipote Gerolama moglie del Conte di Quarto. Per la sua parte poi Francesco Giacinto David lascia erede il nipote Filippo Genteri, figlio della sorella Silvia Margherita, marchesa di Cavaglià; i detti marchesi di Cavaglià la tennero fino al 22 luglio del 1715, data in cui passò nuovamente ai Savoia.
Durante il Risorgimento, le due frazioni furono un rifugio di agitatori politici.
Come tale furono comperate dai Bellintendi di Mantova che colà si erano rifugiati, i quali coltivarono a risaia 80 ettari del tenimento.
LA VITA DEI NOSTRI VECCHI
Sfogliando i vecchi documenti dell' Archivio Parrocchiale e Comunale, meditando le vicende del passato, le conseguenti possibilità di vita e le usanze, viene spontaneo un confronto coi nostri tempi. Ben più dura e misera, imperniata sulla semplicità e sullo spirito di sacrificio, sostenuta dalla fede e ravvivata da un più spontaneo e largo senso di fraternità, si svolgeva un tempo la vita dei nostri avi.
Mancavano loro tutte quelle comodità che per noi sono diventate necessità; di giorno li occupava il lavoro dei campi, di sera i lavori di filatura al tepore delle stalle, al fioco lume di una lucerna a petrolio. Poi il sonno in ampi letti di foglie. E il giorno seguente, come quello precedente.
Eppure erano forse più felici di noi e più tranquilli quei lontani avi, senza sogni irraggiungibili, senza chimere d'inganno, senza esigenze smodate. Il “souet”, una papoccia di farina, ora andata in disuso, era la minestra comune. Cibo comune era anche la “polenta con latte”.
Una “saracca”, con qualche goccia d'olio bastava per un'intera famiglia; le rape, tagliate a rotelle, infilate nello spago e pendenti dal soffitto essiccavano e sconfiguravano la fame dei magri inverni.
Un piatto di lusso erano i fagioli che si scodellavano con formidabile appetito, soprattutto se cotti al forno nelle pignatte di terracotta.
La carne era un cibo "proibito". Scarso il pane. In occasioni particolari si preparavano i “coi-pin”, ossia foglie di cavolo ripiene di carne tritata, e il più delle volte semplicemente di un impasto di verdura, uova e formaggio.Il dolce classico era la “tartara”, fatta con latte e uova, cui lo zucchero bruciato dava esteriormente una lucida vernice bruna.
Quante miserie videro attraverso i secoli i nostri antenati, a causa delle guerre che dal '500 all' '800 si susseguirono ininterrottamente e fecero del basso Canavese il campo di battaglia calpestato con ostinazione da tanti eserciti.
Vigne, campi, prati, orticelli che davano di che campare, pagare la decima, il tasso, erano di tanto in tanto ridotti a desolate sodaglie che le braccia dei contadini rifacevano a stento.
Alla guerra erano collegate quelle gravose imposizioni che estorcevano ai poveri anche l'indispensabile alla vita; seguivano epidemie, le frequenti intemperie completavano la triste situazione. Dopo il 1540-41-42, la peste si ridestava nel 1571 e più micidiale nel 1629 e 30, epoca stessa della peste di Milano.
Dal registro dei morti della Parrocchia si rileva che il numero delle vittime salì a 25.
Nel 1794 varie malattie epidemiche fanno strage: 12 vittime fra la popolazione e oltre la metà del bestiame. Il Comune provvide a rifondere ai colpiti una parte dei danni.
Nel 1854, sul principiare dell'estate, scoppiava furioso in Genova il colera asiatico, importato, così correva voce, da un soldato reduce dall' America, ma in realtà non se ne conobbe il principio.
Da questa città piombava improvvisamente su Caluso, poi su Mazzè e il 1 settembre compariva a Villareggia. Solo l'8 ottobre parve cessare.
Nel 1867 scoppiava una seconda volta nel nostro paese il colera che verso la prima quindicina di maggio già infuriava in Moncrivello ed in Cigliano. Si sarebbe introdotto a Villareggia l'8 giugno e durò quasi 2 mesi, fino al 29 luglio. Su 1410 abitanti, i colpiti furono 140, dei quali 72 perirono.
Con ordinato del 14 luglio 1867, il Comune non potendo provvedere alle gravi spese richieste per il mantenimento degli infermi, ricorse all'autorità superiore per avere qualche aiuto onde provvedere coperte e medicinali. La carità di alcuni benestanti pensò ai pagliericci. Si improvvisò il lazzaretto nella casa di Don Vittorio Balegno, Rettore del Collegio di Chivasso.
Il 29 luglio 1867 si segnalò al governo il dottor Giovanni Capuano residente a Moncrivello, medico condotto a Villareggia, per le vigili e solerti cure prestate per la seconda volta ai colerosi e per lo zelo manifestato pure alcuni anni prima curando affetti da vaiolo nero.
In quei secoli sfortunati comparve anche la pellagra.
I primi casi si verificarono nei nostri paesi circa nel 1776 e si ripeterono fino alla metà del 1800. Ne parla il dottor Boerio di Mazzè, nell'opuscolo «Storia della Pellagra nel Canavese», pubblicato nel 1811, in cui si attribuisce la causa di tale malattia non solo alla polenta che allora sostituiva quasi del tutto il pane, ma ancora alla mancanza assoluta di igiene e alla scarsità di nutrimento.
Le desolanti condizioni delle popolazioni di quell'epoca sono da lui messe in luce con chiara semplicità: le case erano umide, poco ventilate, poco pulite. La gente faticava moltissimo e viveva di cibi scarsi e poco nutrienti, di pochi legumi e di cattivi erbaggi selvatici. La polenta era il primo alimento; il pochissimo pane era di miglio o di segala.
II latte era scarso e quel poco si vendeva o se ne faceva cattivo formaggio. La frutta, un tempo abbondantissima, era diventata scarsa, essendone state distrutte le piante verso la metà del '700.
A fomentare la naturale miseria oltre alle guerre, concorreva l'inclemenza del tempo: le frequentissime grandinate distruggevano i pochi prodotti scampati alle non meno terribili siccità
Negli anni a venire la miseria fu scongiurata con l'emigrazione e, in modo particolare, con l'irrigazione.
I CANALI
Naviglio d'Ivrea
Iniziato nel 1433 sotto Amedeo VIII, primo duca di Savoia, venne portato a compimento dopo 35 anni, nel 1468, durante la reggenza della duchessa Jolanda di Francia, moglie di Amedeo IX. Ma le sabbie della Dora ne resero impossibile il funzionamento per quasi un secolo. Nel 1651 lo acquistò il Marchese di Pianezza, principe di Francavilla che lo riapriva, anche a scopo di navigazione. Appartenne lungamente ai Pianezza, tanto che ancora nel 1830 lo si chiamava “Naviglio di Francavilla”. Per titolo di successione pervenne più tardi ai marchesi Solaro del Borgo i quali finalmente, con atto del 24.8.1820 lo vendettero allo Stato per lire 1.600.000. Alla Rocca una lapide posta sulla sponda sinistra del canale ricorda lo scavo del trincerone del Naviglio d'Ivrea su progetto di Leonardo da Vinci.
Canale DEPRETIS
Il canale Depretis fu aperto nel 1785 sotto il regno di Vittorio Amedeo III. Esso deriva a sinistra dalla Dora Baltea presso Villareggia in regione Boschetto.
Ripiega poi verso nord-est e sbocca nel torrente Elvo presso Carisio. Ha uno sviluppo di oltre 31 Km. La sua portata era dapprima di 18mc al secondo, ma da quando con la legge del 17 luglio 1858 fu deliberato l'ampliamento del canale, la sua portata raggiunse i 55mc al secondo.
L'ampliamento fu opera dell' Ing.Noè, oriundo di Cigliano, sotto il Ministro Depretis che diede il suo nome al Canale.
Il chiusello d'imbocco del canale Depretis è comunemente denominato “Baraccone” dalla baracca costruita dagli operai all'epoca dell'ampliamento.
Canale del ROTTO
Questo canale fu aperto nel 1400 da Giovanni di Monferrato sfruttando lo sfogo detto “Bolla del Rotto” che nell'inondazione del 1400 la Dora si era aperto lungo la costa di Saluggia. Nell'autunno del 1674, essendo stato devastato da una inondazione il primitivo imbocco del Rotto, ed avendo poi la Dora mutato il suo corso, la derivazione dell'acqua fu trasferita superiormente, in territorio di Villareggia, ove si trova tuttora.
Canale CONSORZIALE DI CIGLIANO
E´ la gloria dell'umile sacerdote D. Evasio Ferraris di Prarolo che, quale ideatore e promotore dell'elevatore e del canale consorziale di Cigliano, Borgo d' Ale, Villareggia e Moncrivello, provvide all'irrigazione di una vasta plaga di fertile terreno lungo la collina morenica che i canali precedentemente costruiti non lambivano perché supera i 224 metri sul livello del mare.
Non va dimenticato il primo progetto che risale all'anno 1632, ideato da Bertone Tommaso dell'Ordine dei Predicatori, però il vero precursore dell'elevazione dell'acqua della Dora Baltea sull'altipiano fu Stefano Romagnano di Novi Ligure, costruttore di pubblici lavori specie nei Canali Cavour.
La sua iniziativa momentaneamente falli, ma in Don Evasio Ferraris non venne meno la certezza che quel progetto avrebbe trionfato. A tale scopo riuniva a Cigliano il 9 settembre 1876 il primo Comitato che presentava all'amministrazione dei Canali Demaniali un progetto di massima, avente per base il progetto Romagnano, che venne approvato; il 28 maggio 1877 veniva costituito, con rogito del Notario Cortese, il Consorzio Villareggia, Moncrivello, Cigliano e Borgo d'Ale, tutt'ora in attività.
EMIGRAZIONE
L'emigrazione costituisce una fonte di guadagno per le famiglie, sia quella permanente, sia quella stagionale.
L'emigrazione stagionale, più numerosa e redditizia, avveniva in primavera per la monda del riso ed in autunno per il taglio. Meta: il vicino Vercellese.
Fortissima era nei tempi andati l'emigrazione temporanea o stagionale in Francia e soprattutto nella Svizzera. Raggiunse la massima intensità verso il 1860. In quell'epoca emigrarono 120 persone all'anno, spinte, come si è detto, dalla povertà. Le regioni preferite della Francia erano la Provenza e la Savoia, più vicine a noi, poiché l'emigrante faceva sempre a piedi il viaggio di andata e ritorno.
Il Canton Vaud ed il Cantone di Ginevra erano i preferiti da quelli che si dirigevano verso il nord. Sviluppatissima fu più tardi l'emigrazione nell'America del Nord e più precisamente nel Canada, a Montreal, e negli Stati Uniti, a Jollet, dove gli emigranti si stabilirono definitivamente in gran numero. Tanto è vero che a Montreal c'è un borgo chiamato Villareggia. L'emigrazione verso i paesi d'oltremare durò intensa fino al 1910.
AMMINISTRAZIONE
Villareggia fu uno di quei fortunati paesi che liberamente fece dedizione ai Savoia, e obbedì ad essi soli senza che altri potessero accampare diritti. Capi amministrativi del Comune erano i due Consoli che duravano in carica 6 mesi e non potevano essere rieletti che dopo 2 anni dalla scadenza.
Si eleggevano il 27 dicembre, giorno di S. Giovanni Apostolo ed il 24 giugno. Questi due magistrati si chiamarono così fin verso l'anno 1700 in cui presero il nome dei sindaci, quantunque rivestiti delle medesime attribuzioni.
I Consoli presiedevano e rappresentavano la Credenza (attuale Consiglio Comunale), i cui membri erano 14, scelti fra i migliori registrandi o contribuenti del Comune.
I credenzieri duravano a vita: venivano espulsi i traditori. Quando uno mancava per indegnità o per decesso, veniva sostituito dalla Credenza stessa. L'assente veniva multato.
Per le deliberazioni più importanti si radunava la Vicinanza, cioè l'assemblea di tutti i capi famiglia che pagavano i tributi del Comune. I documenti provano che in quelle occasioni ci si radunava in Chiesa, al suono della campana. Il Comune aveva il segretario, che a Villareggia fu sempre notaio, e il chiavaro, ora esattore. C'era poi il banditore, cioè il messo comunale che alla domenica, all'uscita del popolo dalle funzioni religiose, previo rullo del tamburo, pubblicava a voce alta gli atti ed i bandi.
C'erano anche i campari, cioè le guardie campestri per la vigilanza e tutela dei raccolti.
Durante il dominio francese, Villareggia fece parte del “Dipartimento della Dora”, uno dei 6 in cui era stato diviso il Piemonte.
Il Dipartimento della Dora era diviso in 4 circondari: Ivrea, Aosta, Chivasso e San Giorgio. Villareggia fu soggetta ad Ivrea. Appartenne dapprima al Cantone di Caravino. Nel 1809 si volle aggiudicarla per maggior comodità al Cantone di Vestignè, ma Villareggia si oppose e passò al Cantone di Borgomasino.
Il Sindaco si chiamò “Maire”. Villareggia, avendo popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, ebbe un solo “maire” aggiunto.
I due Maires costituivano quello che oggi è la giunta municipale.
Il primo “Maire” di Villareggia fu Lomater Belletti Domenico.